Wednesday, December 25, 2013

A cosa serve?



«“A cosa serve la storia?” Senza dubbio capita, per questo problema, ciò che accade a quasi tutti i problemi concernenti le ragioni d’essere dei nostri atti e dei nostri pensieri: gli spiriti che per natura sono ad essi indifferenti – o hanno volontariamente deciso di essere tali – comprendono sempre difficilmente che altri spiriti ne facciano l’oggetto di riflessioni appassionanti».

(Marc Bloch, Apologia della Storia, Colin, Paris 1949, trad. it. Einaudi, Torino 1950).

Saturday, December 14, 2013

Per una teoria dell’anagramma: appunti su «Cade ancora neve», un libro alchemico


            Anche il recensore più attento e capace di tenersi lontano dagli oggetti della propria analisi cerca, comunque, un qualcosa nei libri che si trova ad avere sulla scrivania; quando lo trova, anche parzialmente, costruisce un tema su quel determinato testo mantenendosi su un certo filo ermeneutico e, dopo, ripone le pagine maltrattate sullo scaffale insieme agli altri libri dai quali, fiero, crede di aver spolpato le ragioni della mano che ne ha tracciato le linee d’inchiostro. Questa operazione volta a scarnificare un testo non è poi del tutto impossibile eppure, in alcuni casi, ci sono autori che hanno scritto le loro opere con molte mani e difficilmente esse si lasceranno cogliere da una mano sola.

Ci sono scritture che provano sempre ad assomigliare a se stesse perché tutto quello che hanno da dire è nella calma e rassicurante abitudine data dalla loro continuità; le lunghe serie dei libri gialli, rosa o di letteratura fantastica ne sono un ben noto esempio, anche se il loro modello di “letteratura di consumo” si amplia su orizzonti sempre più vasti fagocitando sempre più la buona scrittura. Tende oggi ad imporsi una narrativa da best-seller da Tom Clancy a Dan Brown e Kate Rowling in cui la ripetizione di temi già noti sembra attirare molti lettori; gli autori di queste opere sono costretti a comporre guardandosi sempre indietro, collegando i nuovi binari a quelli già esistenti evitando, con cura, di tracciare nuove vie, di usare termini che il lettore ignora o che, in qualche modo, scavano nella coscienza delle cose e del mondo. Andando oltre questa narrativa troviamo gli scrittori per i quali il presente è già in sé una realtà abbastanza profonda per cercarvi i molteplici significati che il tempo nasconde dietro le sue periodizzazioni e le sue maschere. Questi provano ad immergersi nel presente in cui vivono, invece di tuffarsi in un improbabile futuro o in un passato già dato. Il libro Cade ancora neve (Oros edizioni, 1996), di Sergio Caldarella, è un testo che appartiene a quest’ultimo genere: uno scritto difficile da recensire poiché, per farlo, bisogna addentrarsi tra le idee mascherate dietro le parole, i sensi lacustri e le musiche sommesse nascoste tra le righe. Sembra di intravvedere nell’autore di quest’opera le linee di un piano ambizioso, quello di condurre il lettore tra i pensieri del libro e, d’un tratto, abbandonarlo lì, in mezzo a quel labirinto, per vedere se avrà la capacità di riconoscersi in esso. Apparentemente Cade ancora neve sembra annunciarsi come un testo in prosa e il sottotitolo dalla seconda di copertina (Ballate notturne) sembra confermare quest’impressione iniziale eppure, due citazioni d’apertura cominciano ad instillare qualche dubbio e le prime parole dell’introduzione ci danno la certezza che non si tratti soltanto di prosa: «Crediamo di conoscere il limite dell’orizzonte soltanto perché ci illudiamo che esso sia un confine. Quando, però, cerchiamo di raggiungerlo, quella sottile linea nera in mezzo all’azzurro latteo si sgretola sotto i nostri scarponi e un altro confine ci appare». Siamo dentro una scrittura che ci coinvolge tutti e non ha nessun rispetto per i nostri preconcetti e le nostre categorie, una scrittura che ci dice come stanno le cose nel suo mondo che, alla fine, scopriamo essere anche il nostro.

Il più delle volte, nel ballo strano del vivere, non arriviamo davvero a conoscere le cose finché qualcuno più edotto di noi non è capace di spiegarcele o farcele vedere davvero e nessuno è ancora stato capace di spiegare in profondità le alchimie di Cade ancora neve. Cominciamo proprio dal titolo: Cade ancora neve esprime un discorso che è ancora aperto, qualcosa che, da qualche parte, continua ad accadere, quasi un’ottimistica antitesi a quel «La neige a cessé» («Non nevica più») di Samuel Beckett o quella neve che continua stancamente a cadere sui tetti di Dublino in Joyce. Già Borges in uno dei suoi racconti (Utopia di un uomo che è stanco) fa pronunciare ad una donna di un futuro senza governi, biblioteche, stampa e nessuna memoria, le parole «Continuerà a nevicare» e lo stesso Schubert, nel Viaggio d’inverno, ha un tema simile a quello del viandante di Emeralopia, il primo brano in prosa di Cade ancora neve. Non per niente Caldarella parla del suo testo come di «un’opera sparsa in mezzo ad altri libri e pensieri» (p. 71). Hemingway sosteneva che «Cercare di scrivere qualcosa che abbia un valore permanente comporta un impegno a tempo pieno, anche se la scrittura vera e propria occupa solo alcune ore al giorno (...) Si tratta d’imparare a vedere, ascoltare, pensare, percepire e non percepire, e poi scrivere» per questo, non è solo Cade ancora neve, ma ogni opera ad essere «sparsa in mezzo ad altri libri e pensieri».

            Una singolare avvertenza, proprio dalle prime pagine di Cade ancora neve, chiede o auspica dal lettore una “lettura ad alta voce” come nelle Mille e una notte poiché in tal modo, a detta dell’autore, la scrittura, grazie alla necessità della lentezza e delle pause, prende maggior corpo evocando, così, più significati di quanti se ne possano, apparentemente, leggere. La richiesta di una lettura ad alta voce riconduce ad un rapporto d’altri tempi con la scrittura, come in quella storiella medievale secondo la quale un monaco passeggiava triste nel chiostro poiché, a causa del suo mal di gola, non gli era possibile leggere. In tempi recenti Ludwig Wittgenstein, uomo parco di parole e di scritti, si dichiarava convinto del fatto che «talvolta una proposizione può essere compresa solo leggendola col ritmo giusto» così come Henry Meschonnic proprio in un testo sul ritmo scrive: «Dans le discours, le discours est rythme, et le rythme est discours: non un discours parallèle, intérieur, caché sous les mots, mais le discours même». In Cade ancora neve Sergio Caldarella trasforma queste due precedenti osservazioni di Wittgenstein e Meschonnic in fatti sostanziali, tangibili. Leggere Cade ancora neve con un ritmo diverso da quello del respiro proprio di questa scrittura, significa mancarne il senso, leggerlo al di là del suo proprio ritmo significa cancellarne il discorso che si cela tra le righe. Ma è poi davvero possibile seguire tutti i percorsi di Cade ancora neve? Walt Whitman scriveva: «Se volete comprendermi andate sulle vette o sulle rive, dove ogni inezia è una spiegazione, ogni goccia, ogni moto dell’acqua una chiave, dove il maglio, il remo, la sega fanno da contrappunto alle mie parole». Folle sarebbe dunque pensare di poter percorrere tutti i sentieri che un autore ha racchiuso nelle sue parole. La scrittura di Cade ancora neve gioca, o vive, sui propri mobili confini e sfiora, pericolosamente, i limiti del suo stesso esprit: è una scrittura in cui si può entrare e restarne imprigionati, oppure la si può utilizzare come una sorta di cannocchiale per guardare mondi che si celano tra le pieghe delle realtà o dei sogni. L’uomo del primo racconto che, dalla strada innevata e buia, osserva una casa dalle tante luci dove la gente è in festa ed una fanciulla bellissima sta lì, intenta a pettinarsi i capelli, è come se ci prestasse il suo sguardo e le sue sensazioni per portarci davvero in quella fredda notte in cui egli è eternamente in cammino.

            Sergio Caldarella è nato in una città sul mare (o un’isola dentro l’isola come egli stesso ama dire) dove si intersecano le forme dello stile dorico dei templi greci e i fronzoli dei capitelli e dei balconi barocchi, ma anche la città di Archimede e di Elio Vittorini. Leggendo la prefazione alla Storia universale dell’infamia si capisce dunque come Caldarella sia barocco nel senso che il grande Jorge Luis Borges attribuisce al termine: «[barocco] è lo stile che consapevolmente esaurisce (o vuole esaurire) tutte le proprie possibilità e che confina con la propria caricatura». Non è certo un caso, dunque, che Caldarella, conscio di ben altri roghi, abbia scritto altrove: «Scrivere fino a non poterne più, fino a consumare la penna, gettare il pennino ed esaurire ogni altro strumento di scrittura e, quando, esausti, si contempla una pagina piena di ghirigori e cancellature, aprire il portello della stufa e donare la carta alle fiamme. L’opera perfetta!».

            Sarebbe bello poter scrivere come se si tirassero fuori cibarie da una sacca. Ci sono tanti fatti strani dentro quest’insieme di simboli che usiamo per tentare di fissare o trasmettere idee e sensazioni, forse per questo quasi tutti gli scrittori, in un modo o in un altro, si trovano a riflettere sulla scrittura, il mezzo che usano e dal quale sono – ad opinione di molti – parimenti “usati”.

            Leggendo le parole degli scrittori viene sempre da chiedersi quanti mondi si nascondano in un solo essere umano. Edgar Allan Poe affermava che «chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte» e gli scrittori, questi cavalieri armati delle piume delle loro penne, lottano a lungo per ottenere questa nuova coscienza che abita la notte, un nuovo sentiero in un bosco fatato o una nuova fortezza da erigere su un colle del quale hanno scritto in gioventù. Il loro è solo un mondo fantastico che possiede tutta la potenza e la forza dei mondi che, ingenuamente, chiamiamo reali – non a caso Adorno accenna all’impulso all’espressione artistica come al «desiderio di eludere la schiavitù degli scopi».

            In una delle lettere che abitualmente ci scambiamo ho chiesto a Sergio Caldarella perché scrivesse poesia e lui mi ha risposto parafrasando Rûmî: «In uno dei suoi libri, credo il Fîhi mâ fîhi, Rûmî scriveva: “Io faccio della poesia perché gli amici che vengono da me non se ne vadano delusi e tristi (…) Altrimenti fra me e la poesia c’è un abisso”. Con il dovuto rispetto e l’ovvio distacco tra me e un poeta come Rûmî potrei capovolgere questa frase applicandola alla mia insignificante persona; non sta a me giudicare se faccio della poesia ma, se ciò avviene, è perché da me non vengono amici per ascoltare poesie e, forse, se ne andrebbero delusi e tristi se volessi fargli ascoltare qualcosa ed è forse per questo che tra me e la poesia continua ad esserci un abisso infinito». In un’altra lettera aggiunge: «se ho fatto dei versi, se davvero sono stato capace di comporli, ho sempre pensato di aver assolto a tale compito come una sorta di locatario di un appartamento troppo grande per le sue povere masserie. Ho lasciato – forse – che il nume delle cose potesse visitare le mie notti e mi sono aggrappato al lembo del mantello di questo principe abbagliante facendomi trascinare per pochi passi fino a trovare tra i miei vestiti ormai strappati poche schegge di quella strana ispirazione. Se dovessi pensarmi come “un poeta” proverei disagio per la presunzione delle mie parole. Penso invece a me stesso come ad uno strano barbone che attende, seduto davanti al mare ed al cielo, un raggio che faccia esplodere il colore delle onde. Il segreto e la gioia è proprio nell’attesa (…) Ogni attesa è completa così come il vuoto dove nessuno può imprimere una forma. Ci sono così tante cose che l’uomo desidera ingenuamente e questo desiderio ci dirige, in modi che difficilmente comprendiamo, nuovamente verso gli oggetti del nostro desiderio, una circolarità dalle profonde implicazioni esistenziali. Il vero problema è che non riusciamo a desiderare ciò che è al di fuori della scatola colorata che è il mondo (il corsivo è mio). Siamo ingabbiati in questo rebus tra il mondo, il desiderio e la poesia e questi, alla fine, sono forse l’unico spiraglio che abbiamo per guardare un po’ più in là da queste nebbie».

In chiusura alla lettera citata Sergio Caldarella aggiunge: «è meglio per me se non rileggo le mie stesse parole» e da questo sentimento di colpa e offesa verso gli inchiostri della propria scrittura con cui si è stesa una mappa delle planimetrie dell’anima, si comprende quanto la scrittura sia un carico che l’autore porta sempre con sé. Tutti noi trasportiamo il nostro significato privato del mondo elaborato in anni di esperienze costruite sull’amore, il dolore e la noia e non è la struttura di una molecola elicoidale che ci rende umani, ma la misura con cui trasformiamo i bruta facta del mondo in un’esperienza di senso. Sergio Caldarella nelle Metafisiche del Mondo, il libro che rappresenta il corollario ed il contraltare filosofico di Cade ancora neve, scrive: «Le cose che sei capace di vedere sono più importanti delle cose che hai visto» e, poche pagine dopo, aprendo un nuovo paragrafo cita una frase tratta dal mio libro Walls and Mountains «Non bisogna appartenere a nulla per poter uscire da tutto». Trovo in queste due citazioni un rapporto di saldi equilibri: è come se Caldarella iniziasse una sorta di frase iniziatica in cui dichiara, perentorio, che quanto vediamo non è così fondamentale in rapporto alla nostra elaborazione mentale sul mondo eppure, poche pagine dopo, agganciando la citazione da Walls and Mountains al suo discorso, afferma che bisogna abbandonare persino questa visuale mentale privilegiata rispetto alla semplice visione delle cose per uscire dall’appartenenza/dipendenza alla materia ed entrare in una nuova avvolgente totalità ermeneutica in cui tutto parla a tutto. Questo discorso sulla totalità in un certo senso ossessiona Caldarella ed egli lo affronta secondo una curiosa geometria di anagrammi ed alchimie verbali in Cade ancora neve, ma anche nelle Metafisiche del Mondo o in Memoria e dolore, testi dove le parole parlano tra loro e il senso stesso del verbo, avendo preso commiato dalla mens auctoris, parla e racconta in una sua lingua autonoma. Anche per questo Cade ancora neve è un libro sull’unità poiché quest’autonomia significante secondo cui ogni pagina rimanda ad altre pagine dello stesso volume oppure degli innumerevoli tomi del sapere umano, pur nella sua incredibile vastità, compie un’operazione circolare dove il testo parla, eternamente, ad altri testi e ne compone un’appendice o, forse, una chiave o un principio. Da Cade ancora neve emerge anche la topologia di un sapere complesso dove non esiste un solo livello di riferimento, una sola disciplina. In questo scritto la scienza sembra fondersi nella filosofia e quest’ultima sembra tramare dietro la poesia; per questo Cade ancora neve difficilmente potrebbe essere compreso da un lettore abituato a frequentare solo la filosofia o soltanto la letteratura. Tutto nella scrittura di Caldarella sembra indicare un progetto, persino l’assenza – apparente o meno – di progetto sembra rinviare a qualcosa di più ampio e lontano che in quel momento non ci è dato capire e le parole in questo composto magma si coniugano ad altre parole in una vasta circolarità che traccia il segno di una perturbante unità. Anche le apparenti imperfezioni nel legame tra alcuni concetti sono frutto di un periodare che, nel suo progetto complessivo, si muove tra la prosa e l’aforisma.

Gli alchimisti nascondevano, in maniera disomogenea, le chiavi per la decifrazione dei loro scritti sia per impedire una rapida e semplice lettura del loro lavoro, sia per indicare la natura irregolare delle cose del mondo il cui ordine si manifesta solo quando possediamo l’ultima chiave, quella che, nella filosofia delle cose, non raggiungeremo mai. È questo lo spirito con cui muoverci alla ricerca dei simboli nascosti in Cade ancora neve; a pagina cinquanta, per esempio, il titolo della breve prosa è in norvegese: En Flyktning Krysser sitt spor, Un fuggiasco incrocia le proprie orme, perché proprio questo titolo? L’idea di circolarità che si cela in queste parole porta con sé, per ammissione dello stesso Caldarella, un riferimento ad uno dei brani più noti del mondo classico: la descrizione omerica dello scudo di Achille dove il termine greco oîmos serve per indicare, allo stesso tempo, la fascia circolare con figure che decora lo scudo o la corazza e il poema stesso. Seguendo questa chiarificazione, il titolo di pagina cinquanta assume così una valenza ben diversa da quella che la pura traduzione significante sembrerebbe indicare: se il fuggiasco incrocia le proprie ombre è perché si sta aggirando intorno alla natura circolare della poesia o della vita una natura che, nel suo cingere, implica anche un’estetica ed un riferimento mitico. L’estetica è quella dell’arte capace di cingere, di abbracciare la totalità attraverso un percorso, il mito è quello della radice che si riscopre nel ritorno alle cose, la circolarità del poema è tale che, percorrendola idealmente, altro non facciamo se non tornare allo specchio da cui eravamo partiti: sembra di essere nel cuore dei misteri eleusini il cui simbolo ultimo è, per l’appunto, lo specchio senza innocenza.

 
(Da: James Krote, Per una teoria dell’anagramma: appunti su “Cade ancora neve”, un libro alchemico, in «Foreign Accent. Canadian Review of Literatures» Vol. XXVI, Montréal, settembre-ottobre 2005, pp. 44-50. Trad. dall’inglese di Nick Palombella)

Wednesday, December 4, 2013

Keep me away


«Keep me away from the wisdom that does not cry, the philosophy which does not laugh and the greatness which does not bow before children».

 (Gibran Kahlil Gibran)