Sunday, January 11, 2015

Inesorabili appiattimenti spengono i luoghi e la gente.

«Aura» per tutto l’Ottocento è una parola che sale facilmente alle labbra, si applica a nuovi usi con piacere e sollecitudine: un trattato del 1836 attribuisce all’aura del seme la fecondazione, aura è denominato l’effluvio di punte metalliche cariche di elettricità, lo stordimento che precede l’attacco epilettico e per estensione il delizioso smarrimento e la goduta paura che annunciano la possessione nella macumba e nel vudu.
Poi «aura» è diventata una parola desueta, ed è avvenuto repentinamente, poiché ci si è accorti che oggi si vive fra persone e cose in serie, che per antonomasia non irradiano nulla; sottili mortificazioni, inesorabili appiattimenti spengono i luoghi e la gente.
Ormai manca da noi l’occasione di usare la parola, che subito cessa però di suonare aulica e vaga allorquando, in rari luoghi illesi dell’Oriente, un’aura ci viene incontro in tutta la sua forza. Ancora accade: nelle più remote campagne dell’India, fra i prati ondosi color smeraldo, accanto agli stagni di ninfee, l’intensità degli sguardi stordisce; ecco che cosa intendevano i Romani quando parlavano di luoghi o di persone «geniali», i Greci quando dicevano «demonici».

(Elémire Zolla)