Wednesday, December 25, 2013

A cosa serve?



«“A cosa serve la storia?” Senza dubbio capita, per questo problema, ciò che accade a quasi tutti i problemi concernenti le ragioni d’essere dei nostri atti e dei nostri pensieri: gli spiriti che per natura sono ad essi indifferenti – o hanno volontariamente deciso di essere tali – comprendono sempre difficilmente che altri spiriti ne facciano l’oggetto di riflessioni appassionanti».

(Marc Bloch, Apologia della Storia, Colin, Paris 1949, trad. it. Einaudi, Torino 1950).

Saturday, December 14, 2013

Per una teoria dell’anagramma: appunti su «Cade ancora neve», un libro alchemico


            Anche il recensore più attento e capace di tenersi lontano dagli oggetti della propria analisi cerca, comunque, un qualcosa nei libri che si trova ad avere sulla scrivania; quando lo trova, anche parzialmente, costruisce un tema su quel determinato testo mantenendosi su un certo filo ermeneutico e, dopo, ripone le pagine maltrattate sullo scaffale insieme agli altri libri dai quali, fiero, crede di aver spolpato le ragioni della mano che ne ha tracciato le linee d’inchiostro. Questa operazione volta a scarnificare un testo non è poi del tutto impossibile eppure, in alcuni casi, ci sono autori che hanno scritto le loro opere con molte mani e difficilmente esse si lasceranno cogliere da una mano sola.

Ci sono scritture che provano sempre ad assomigliare a se stesse perché tutto quello che hanno da dire è nella calma e rassicurante abitudine data dalla loro continuità; le lunghe serie dei libri gialli, rosa o di letteratura fantastica ne sono un ben noto esempio, anche se il loro modello di “letteratura di consumo” si amplia su orizzonti sempre più vasti fagocitando sempre più la buona scrittura. Tende oggi ad imporsi una narrativa da best-seller da Tom Clancy a Dan Brown e Kate Rowling in cui la ripetizione di temi già noti sembra attirare molti lettori; gli autori di queste opere sono costretti a comporre guardandosi sempre indietro, collegando i nuovi binari a quelli già esistenti evitando, con cura, di tracciare nuove vie, di usare termini che il lettore ignora o che, in qualche modo, scavano nella coscienza delle cose e del mondo. Andando oltre questa narrativa troviamo gli scrittori per i quali il presente è già in sé una realtà abbastanza profonda per cercarvi i molteplici significati che il tempo nasconde dietro le sue periodizzazioni e le sue maschere. Questi provano ad immergersi nel presente in cui vivono, invece di tuffarsi in un improbabile futuro o in un passato già dato. Il libro Cade ancora neve (Oros edizioni, 1996), di Sergio Caldarella, è un testo che appartiene a quest’ultimo genere: uno scritto difficile da recensire poiché, per farlo, bisogna addentrarsi tra le idee mascherate dietro le parole, i sensi lacustri e le musiche sommesse nascoste tra le righe. Sembra di intravvedere nell’autore di quest’opera le linee di un piano ambizioso, quello di condurre il lettore tra i pensieri del libro e, d’un tratto, abbandonarlo lì, in mezzo a quel labirinto, per vedere se avrà la capacità di riconoscersi in esso. Apparentemente Cade ancora neve sembra annunciarsi come un testo in prosa e il sottotitolo dalla seconda di copertina (Ballate notturne) sembra confermare quest’impressione iniziale eppure, due citazioni d’apertura cominciano ad instillare qualche dubbio e le prime parole dell’introduzione ci danno la certezza che non si tratti soltanto di prosa: «Crediamo di conoscere il limite dell’orizzonte soltanto perché ci illudiamo che esso sia un confine. Quando, però, cerchiamo di raggiungerlo, quella sottile linea nera in mezzo all’azzurro latteo si sgretola sotto i nostri scarponi e un altro confine ci appare». Siamo dentro una scrittura che ci coinvolge tutti e non ha nessun rispetto per i nostri preconcetti e le nostre categorie, una scrittura che ci dice come stanno le cose nel suo mondo che, alla fine, scopriamo essere anche il nostro.

Il più delle volte, nel ballo strano del vivere, non arriviamo davvero a conoscere le cose finché qualcuno più edotto di noi non è capace di spiegarcele o farcele vedere davvero e nessuno è ancora stato capace di spiegare in profondità le alchimie di Cade ancora neve. Cominciamo proprio dal titolo: Cade ancora neve esprime un discorso che è ancora aperto, qualcosa che, da qualche parte, continua ad accadere, quasi un’ottimistica antitesi a quel «La neige a cessé» («Non nevica più») di Samuel Beckett o quella neve che continua stancamente a cadere sui tetti di Dublino in Joyce. Già Borges in uno dei suoi racconti (Utopia di un uomo che è stanco) fa pronunciare ad una donna di un futuro senza governi, biblioteche, stampa e nessuna memoria, le parole «Continuerà a nevicare» e lo stesso Schubert, nel Viaggio d’inverno, ha un tema simile a quello del viandante di Emeralopia, il primo brano in prosa di Cade ancora neve. Non per niente Caldarella parla del suo testo come di «un’opera sparsa in mezzo ad altri libri e pensieri» (p. 71). Hemingway sosteneva che «Cercare di scrivere qualcosa che abbia un valore permanente comporta un impegno a tempo pieno, anche se la scrittura vera e propria occupa solo alcune ore al giorno (...) Si tratta d’imparare a vedere, ascoltare, pensare, percepire e non percepire, e poi scrivere» per questo, non è solo Cade ancora neve, ma ogni opera ad essere «sparsa in mezzo ad altri libri e pensieri».

            Una singolare avvertenza, proprio dalle prime pagine di Cade ancora neve, chiede o auspica dal lettore una “lettura ad alta voce” come nelle Mille e una notte poiché in tal modo, a detta dell’autore, la scrittura, grazie alla necessità della lentezza e delle pause, prende maggior corpo evocando, così, più significati di quanti se ne possano, apparentemente, leggere. La richiesta di una lettura ad alta voce riconduce ad un rapporto d’altri tempi con la scrittura, come in quella storiella medievale secondo la quale un monaco passeggiava triste nel chiostro poiché, a causa del suo mal di gola, non gli era possibile leggere. In tempi recenti Ludwig Wittgenstein, uomo parco di parole e di scritti, si dichiarava convinto del fatto che «talvolta una proposizione può essere compresa solo leggendola col ritmo giusto» così come Henry Meschonnic proprio in un testo sul ritmo scrive: «Dans le discours, le discours est rythme, et le rythme est discours: non un discours parallèle, intérieur, caché sous les mots, mais le discours même». In Cade ancora neve Sergio Caldarella trasforma queste due precedenti osservazioni di Wittgenstein e Meschonnic in fatti sostanziali, tangibili. Leggere Cade ancora neve con un ritmo diverso da quello del respiro proprio di questa scrittura, significa mancarne il senso, leggerlo al di là del suo proprio ritmo significa cancellarne il discorso che si cela tra le righe. Ma è poi davvero possibile seguire tutti i percorsi di Cade ancora neve? Walt Whitman scriveva: «Se volete comprendermi andate sulle vette o sulle rive, dove ogni inezia è una spiegazione, ogni goccia, ogni moto dell’acqua una chiave, dove il maglio, il remo, la sega fanno da contrappunto alle mie parole». Folle sarebbe dunque pensare di poter percorrere tutti i sentieri che un autore ha racchiuso nelle sue parole. La scrittura di Cade ancora neve gioca, o vive, sui propri mobili confini e sfiora, pericolosamente, i limiti del suo stesso esprit: è una scrittura in cui si può entrare e restarne imprigionati, oppure la si può utilizzare come una sorta di cannocchiale per guardare mondi che si celano tra le pieghe delle realtà o dei sogni. L’uomo del primo racconto che, dalla strada innevata e buia, osserva una casa dalle tante luci dove la gente è in festa ed una fanciulla bellissima sta lì, intenta a pettinarsi i capelli, è come se ci prestasse il suo sguardo e le sue sensazioni per portarci davvero in quella fredda notte in cui egli è eternamente in cammino.

            Sergio Caldarella è nato in una città sul mare (o un’isola dentro l’isola come egli stesso ama dire) dove si intersecano le forme dello stile dorico dei templi greci e i fronzoli dei capitelli e dei balconi barocchi, ma anche la città di Archimede e di Elio Vittorini. Leggendo la prefazione alla Storia universale dell’infamia si capisce dunque come Caldarella sia barocco nel senso che il grande Jorge Luis Borges attribuisce al termine: «[barocco] è lo stile che consapevolmente esaurisce (o vuole esaurire) tutte le proprie possibilità e che confina con la propria caricatura». Non è certo un caso, dunque, che Caldarella, conscio di ben altri roghi, abbia scritto altrove: «Scrivere fino a non poterne più, fino a consumare la penna, gettare il pennino ed esaurire ogni altro strumento di scrittura e, quando, esausti, si contempla una pagina piena di ghirigori e cancellature, aprire il portello della stufa e donare la carta alle fiamme. L’opera perfetta!».

            Sarebbe bello poter scrivere come se si tirassero fuori cibarie da una sacca. Ci sono tanti fatti strani dentro quest’insieme di simboli che usiamo per tentare di fissare o trasmettere idee e sensazioni, forse per questo quasi tutti gli scrittori, in un modo o in un altro, si trovano a riflettere sulla scrittura, il mezzo che usano e dal quale sono – ad opinione di molti – parimenti “usati”.

            Leggendo le parole degli scrittori viene sempre da chiedersi quanti mondi si nascondano in un solo essere umano. Edgar Allan Poe affermava che «chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte» e gli scrittori, questi cavalieri armati delle piume delle loro penne, lottano a lungo per ottenere questa nuova coscienza che abita la notte, un nuovo sentiero in un bosco fatato o una nuova fortezza da erigere su un colle del quale hanno scritto in gioventù. Il loro è solo un mondo fantastico che possiede tutta la potenza e la forza dei mondi che, ingenuamente, chiamiamo reali – non a caso Adorno accenna all’impulso all’espressione artistica come al «desiderio di eludere la schiavitù degli scopi».

            In una delle lettere che abitualmente ci scambiamo ho chiesto a Sergio Caldarella perché scrivesse poesia e lui mi ha risposto parafrasando Rûmî: «In uno dei suoi libri, credo il Fîhi mâ fîhi, Rûmî scriveva: “Io faccio della poesia perché gli amici che vengono da me non se ne vadano delusi e tristi (…) Altrimenti fra me e la poesia c’è un abisso”. Con il dovuto rispetto e l’ovvio distacco tra me e un poeta come Rûmî potrei capovolgere questa frase applicandola alla mia insignificante persona; non sta a me giudicare se faccio della poesia ma, se ciò avviene, è perché da me non vengono amici per ascoltare poesie e, forse, se ne andrebbero delusi e tristi se volessi fargli ascoltare qualcosa ed è forse per questo che tra me e la poesia continua ad esserci un abisso infinito». In un’altra lettera aggiunge: «se ho fatto dei versi, se davvero sono stato capace di comporli, ho sempre pensato di aver assolto a tale compito come una sorta di locatario di un appartamento troppo grande per le sue povere masserie. Ho lasciato – forse – che il nume delle cose potesse visitare le mie notti e mi sono aggrappato al lembo del mantello di questo principe abbagliante facendomi trascinare per pochi passi fino a trovare tra i miei vestiti ormai strappati poche schegge di quella strana ispirazione. Se dovessi pensarmi come “un poeta” proverei disagio per la presunzione delle mie parole. Penso invece a me stesso come ad uno strano barbone che attende, seduto davanti al mare ed al cielo, un raggio che faccia esplodere il colore delle onde. Il segreto e la gioia è proprio nell’attesa (…) Ogni attesa è completa così come il vuoto dove nessuno può imprimere una forma. Ci sono così tante cose che l’uomo desidera ingenuamente e questo desiderio ci dirige, in modi che difficilmente comprendiamo, nuovamente verso gli oggetti del nostro desiderio, una circolarità dalle profonde implicazioni esistenziali. Il vero problema è che non riusciamo a desiderare ciò che è al di fuori della scatola colorata che è il mondo (il corsivo è mio). Siamo ingabbiati in questo rebus tra il mondo, il desiderio e la poesia e questi, alla fine, sono forse l’unico spiraglio che abbiamo per guardare un po’ più in là da queste nebbie».

In chiusura alla lettera citata Sergio Caldarella aggiunge: «è meglio per me se non rileggo le mie stesse parole» e da questo sentimento di colpa e offesa verso gli inchiostri della propria scrittura con cui si è stesa una mappa delle planimetrie dell’anima, si comprende quanto la scrittura sia un carico che l’autore porta sempre con sé. Tutti noi trasportiamo il nostro significato privato del mondo elaborato in anni di esperienze costruite sull’amore, il dolore e la noia e non è la struttura di una molecola elicoidale che ci rende umani, ma la misura con cui trasformiamo i bruta facta del mondo in un’esperienza di senso. Sergio Caldarella nelle Metafisiche del Mondo, il libro che rappresenta il corollario ed il contraltare filosofico di Cade ancora neve, scrive: «Le cose che sei capace di vedere sono più importanti delle cose che hai visto» e, poche pagine dopo, aprendo un nuovo paragrafo cita una frase tratta dal mio libro Walls and Mountains «Non bisogna appartenere a nulla per poter uscire da tutto». Trovo in queste due citazioni un rapporto di saldi equilibri: è come se Caldarella iniziasse una sorta di frase iniziatica in cui dichiara, perentorio, che quanto vediamo non è così fondamentale in rapporto alla nostra elaborazione mentale sul mondo eppure, poche pagine dopo, agganciando la citazione da Walls and Mountains al suo discorso, afferma che bisogna abbandonare persino questa visuale mentale privilegiata rispetto alla semplice visione delle cose per uscire dall’appartenenza/dipendenza alla materia ed entrare in una nuova avvolgente totalità ermeneutica in cui tutto parla a tutto. Questo discorso sulla totalità in un certo senso ossessiona Caldarella ed egli lo affronta secondo una curiosa geometria di anagrammi ed alchimie verbali in Cade ancora neve, ma anche nelle Metafisiche del Mondo o in Memoria e dolore, testi dove le parole parlano tra loro e il senso stesso del verbo, avendo preso commiato dalla mens auctoris, parla e racconta in una sua lingua autonoma. Anche per questo Cade ancora neve è un libro sull’unità poiché quest’autonomia significante secondo cui ogni pagina rimanda ad altre pagine dello stesso volume oppure degli innumerevoli tomi del sapere umano, pur nella sua incredibile vastità, compie un’operazione circolare dove il testo parla, eternamente, ad altri testi e ne compone un’appendice o, forse, una chiave o un principio. Da Cade ancora neve emerge anche la topologia di un sapere complesso dove non esiste un solo livello di riferimento, una sola disciplina. In questo scritto la scienza sembra fondersi nella filosofia e quest’ultima sembra tramare dietro la poesia; per questo Cade ancora neve difficilmente potrebbe essere compreso da un lettore abituato a frequentare solo la filosofia o soltanto la letteratura. Tutto nella scrittura di Caldarella sembra indicare un progetto, persino l’assenza – apparente o meno – di progetto sembra rinviare a qualcosa di più ampio e lontano che in quel momento non ci è dato capire e le parole in questo composto magma si coniugano ad altre parole in una vasta circolarità che traccia il segno di una perturbante unità. Anche le apparenti imperfezioni nel legame tra alcuni concetti sono frutto di un periodare che, nel suo progetto complessivo, si muove tra la prosa e l’aforisma.

Gli alchimisti nascondevano, in maniera disomogenea, le chiavi per la decifrazione dei loro scritti sia per impedire una rapida e semplice lettura del loro lavoro, sia per indicare la natura irregolare delle cose del mondo il cui ordine si manifesta solo quando possediamo l’ultima chiave, quella che, nella filosofia delle cose, non raggiungeremo mai. È questo lo spirito con cui muoverci alla ricerca dei simboli nascosti in Cade ancora neve; a pagina cinquanta, per esempio, il titolo della breve prosa è in norvegese: En Flyktning Krysser sitt spor, Un fuggiasco incrocia le proprie orme, perché proprio questo titolo? L’idea di circolarità che si cela in queste parole porta con sé, per ammissione dello stesso Caldarella, un riferimento ad uno dei brani più noti del mondo classico: la descrizione omerica dello scudo di Achille dove il termine greco oîmos serve per indicare, allo stesso tempo, la fascia circolare con figure che decora lo scudo o la corazza e il poema stesso. Seguendo questa chiarificazione, il titolo di pagina cinquanta assume così una valenza ben diversa da quella che la pura traduzione significante sembrerebbe indicare: se il fuggiasco incrocia le proprie ombre è perché si sta aggirando intorno alla natura circolare della poesia o della vita una natura che, nel suo cingere, implica anche un’estetica ed un riferimento mitico. L’estetica è quella dell’arte capace di cingere, di abbracciare la totalità attraverso un percorso, il mito è quello della radice che si riscopre nel ritorno alle cose, la circolarità del poema è tale che, percorrendola idealmente, altro non facciamo se non tornare allo specchio da cui eravamo partiti: sembra di essere nel cuore dei misteri eleusini il cui simbolo ultimo è, per l’appunto, lo specchio senza innocenza.

 
(Da: James Krote, Per una teoria dell’anagramma: appunti su “Cade ancora neve”, un libro alchemico, in «Foreign Accent. Canadian Review of Literatures» Vol. XXVI, Montréal, settembre-ottobre 2005, pp. 44-50. Trad. dall’inglese di Nick Palombella)

Wednesday, December 4, 2013

Keep me away


«Keep me away from the wisdom that does not cry, the philosophy which does not laugh and the greatness which does not bow before children».

 (Gibran Kahlil Gibran)

Friday, November 29, 2013

Time and life


«Time and life are eternal twins
                           and what we call love
is just what holds
                         their hand together.»

 
(Abstract from the poem: Time and Life by Sergio Caldarella)

Sunday, November 17, 2013

Essere e dover essere


La tristezza sorge sempre dalla distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

(Sergio Caldarella)

Saturday, November 16, 2013

Un monde enfermé dans un homme


«Un poète est un monde enfermé dans un homme».

(Victor Hugo, La Légende des siècles, 1859)

«Il poeta è un mondo racchiuso in un uomo».

Wednesday, November 13, 2013

«mago della magia preciosa y precisa»


«Un artista che vuole avere successo non è un artista. È solo una persona che vuole avere successo».

(Piero Fornasetti)

Saturday, November 9, 2013

La voce di chi parla


«It is one of the worst things of sentiment, that the voice grows to be more important than the words, and the speaker than that which is spoken».

(R. L. Stevenson, The Master of Ballantrae. A Winter’s Tale, 1889)

«Uno tra i peggiori aspetti del sentimento è che la voce di chi parla è più importante di quello che dice».

Sunday, November 3, 2013

They who dream by day


«They who dream by day are cognizant of many things which escape those who dream only by night».

(Edgar Allan Poe, Eleonora, 1842)

«Chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte».

Saturday, November 2, 2013

Los Justos


Un hombre que cultiva un jardín, como quería Voltaire.
El que agradece que en la tierra haya música.
El que descubre con placer una etimología.
Dos empleados que en un café del Sur juegan un silencioso ajedrez.
El ceramista que premedita un color y una forma.
Un tipógrafo que compone bien esta página, que tal vez no le agrada
Una mujer y un hombre que leen los tercetos finales de cierto canto.
El que acaricia a un animal dormido.
El que justifica o quiere justificar un mal que le han hecho.
El que agradece que en la tierra haya Stevenson.
El que prefiere que los otros tengan razón.
Esas personas, que se ignoran, están salvando el mundo.

 (Jorge Luis Borges)

 

Un uomo che coltiva un giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un’etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano una silenziosa partita a scacchi.
Il vasaio che contempla un colore ed una forma.
Un tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna ed un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è grato che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

(trad. Dr. Divago)

Friday, November 1, 2013

Inviato a Nord in una notte di pioggia



 
 

Mi chiedi quando tornerò, ma io non so dirti quando

La pioggia notturna sulle colline di Ba oltrepassa le polle d’autunno.

Quando potremo soffiare la candela sulla finestra occidentale

E parlare insieme della pioggia notturna sulle colline di Ba?


(Li Shangyin)

Saturday, October 5, 2013

The object of power is power

«Now I will tell you the answer to my question. It is this. The Party seeks power entirely for its own sake. We are not interested in the good of others; we are interested solely in power, pure power. What pure power means you will understand presently. We are different from the oligarchies of the past in that we know what we are doing. All the others, even those who resembled ourselves, were cowards and hypocrites. The German Nazis and the Russian Communists came very close to us in their methods, but they never had the courage to recognize their own motives. They pretended, perhaps they even believed, that they had seized power unwillingly and for a limited time, and that just around the corner there lay a paradise where human beings would be free and equal. We are not like that. We know what no one ever seizes power with the intention of relinquishing it. Power is not a means; it is an end. One does not establish a dictatorship in order to safeguard a revolution; one makes the revolution in order to establish the dictatorship. The object of persecution is persecution. The object of torture is torture. The object of power is power. Now you begin to understand me.»

(George Orwell, 1984)

Friday, October 4, 2013

La ballata della brutta zucca

Se ne vedono pel mondo
che son osti... cavadenti
boja, eccetera... (o, secondo
le fortune, grand’Orienti).
5C’è chi taglia e cuce brache,
chi leoni addestra in gabbia,
chi va in cerca di lumache...
....................
Io... fo buchi nella sabbia.

10I poeti, anime elette,
riman laudi e piagnistei
per l’amore di Giuliette
di cui mai sono i Romei!
I fedeli questurini
15metton argini alla rabbia
dei colpevoli assassini...
....................
Io... fo buchi nella sabbia.

Sento intorno sussurrarmi
20che ci sono altri mestieri...
Bravi... A voi! Scolpite marmi,
combattete il beri-beri,
allevate ostriche a Chioggia,
filugelli in Cadenabbia
25fabbricate parapioggia
....................
Io... fo buchi nella sabbia.

O cogliete la cicoria...
e gli allori. A voi! Dio v’abbia
30tutti e quanti, in pace, in gloria!
....................
Io ... fo buchi nella sabbia

(Ernesto Ragazzoni)

Saturday, September 21, 2013

The dawn of the new age


“…Well, I’d say it really got started around about a thing called the Civil War. Even though our rule-book claims it was founded earlier. The fact is we didn’t get along well until photography came into its own. Then--motion pictures in the early twentieth century. Radio. Television. Things began to have mass.”

Montag sat in bed, not moving.

“And because they had mass, they became simpler,” said Beatty. “Once, books appealed to a few people, here, there, everywhere. They could afford to be different. The world was roomy. But then the world got full of eyes and elbows and mouths. Double, triple, quadruple population. Films and radios, magazines, books levelled down to a sort of paste pudding norm, do you follow me?”

“I think so.”

Beatty peered at the smoke pattern he had put out on the air. “Picture it. Nineteenth-century man with his horses, dogs, carts, slow motion. Then, in the twentieth century, speed up your camera. Books cut shorter. Condensations, Digests. Tabloids. Everything boils down to the gag, the snap ending.”

“Snap ending.” Mildred nodded.

“Classics cut to fit fifteen-minute radio shows, then cut again to fill a two-minute book column, winding up at last as a ten- or twelve-line dictionary resume. I exaggerate, of course. The dictionaries were for reference. But many were those whose sole knowledge of Hamlet (you

know the title certainly, Montag; it is probably only a faint rumour of a title to you, Mrs. Montag) whose sole knowledge, as I say, of Hamlet was a one-page digest in a book that claimed: 'now at least you can read all the classics; keep up with your neighbours.' Do you see? Out of the nursery into the college and back to the nursery; there’s your intellectual pattern for the past five centuries or more.”

Mildred arose and began to move around the room, picking things up and putting them down.

Beatty ignored her and continued “Speed up the film, Montag, quick. Click? Pic? Look, Eye, Now, Flick, Here, There, Swift, Pace, Up, Down, In, Out, Why, How, Who, What, Where, Eh? Uh! Bang! Smack! Wallop, Bing, Bong, Boom! Digest-digests, digest-digest-digests. Politics? One column, two sentences, a headline! Then, in mid-air, all vanishes! Whirl man's mind around about so fast under the pumping hands of publishers, exploiters, broadcasters, that the centrifuge flings off all unnecessary, time-wasting thought!”

Mildred smoothed the bedclothes. Montag felt his heart jump and jump again as she patted his pillow. Right now she was pulling at his shoulder to try to get him to move so she could take the pillow out and fix it nicely and put it back. And perhaps cry out and stare or simply reach down her hand and say, “What’s this?” and hold up the hidden book with touching innocence.

“School is shortened, discipline relaxed, philosophies, histories, languages dropped, English and spelling gradually neglected, finally almost completely ignored. Life is immediate, the job counts, pleasure lies all about after work. Why learn anything save pressing buttons, pulling switches, fitting nuts and bolts?”

“Let me fix your pillow,” said Mildred.

“No!” whispered Montag,

"The zipper displaces the button and a man lacks just that much time to think while dressing at dawn, a philosophical hour, and thus a melancholy hour.”

Mildred said, “Here.”

“Get away,” said Montag.

“Life becomes one big pratfall, Montag; everything bang; boff, and wow!”.


(Abstract from: Fahrenheit 451 by Ray Bradbury).

Friday, September 13, 2013

Senso e soggettività



«Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!»

(Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore, 1921)

Friday, September 6, 2013

Le opere di genio


«Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le piú terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle piú acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta».

(Giacomo Leopardi)

Monday, August 26, 2013

Obtain that which you do not want


«It is curious how often you humans manage to obtain that which you do not want».

 (Mr. Spock in the episode Errand of Mercy)

Sunday, August 25, 2013

Chocolate and money


«If I like chocolate it won’t surprise you that I have a few chocolates in my fridge, but if you find out I’ve got 16 warehouses full of chocolate, you’d think I was insane. All these rich guys are insane, obsessive compulsive twits obsessed with money — money is all they think about — they’re all nuts».

(John Cleese)

Wednesday, August 14, 2013

When truly human


Ὠς χαρίεν ἔστʹ ἄνθρωπος, ὅταν ἄνθρωπος ᾗ
Qual cosa fine è l’uomo, quand’egli è davvero uomo.
What a fine thing a human is, when truly human!
 
(Menandro, frammento 761)

Monday, August 12, 2013

Die Welt ist ein großer Zirkus


«Die Welt ist ein großer Zirkus, so erklärt sich der große Bedarf an clowns».

 (Sergio Caldarella)

Tuesday, August 6, 2013

The games we play


«Nothing reveals Humanity so well as the games it plays»

(David Hartley, English philosopher 1705-1757)

Wednesday, July 24, 2013

A fool’s brain


«A fool’s brain digests philosophy into folly, science into superstition, and art into pedantry. Hence University education».

(George Bernard Shaw)

Sunday, July 21, 2013

Alone

From childhood’s hour I have not been
As others were—I have not seen
As others saw—I could not bring
My passions from a common spring—
From the same source I have not taken
My sorrow—I could not awaken
My heart to joy at the same tone—
And all I lov’d—I lov’d alone—
Then—in my childhood—in the dawn
Of a most stormy life—was drawn
From ev’ry depth of good and ill
The mystery which binds me still—
From the torrent, or the fountain—
From the red cliff of the mountain—
From the sun that ’round me roll’d
In its autumn tint of gold—
From the lightning in the sky
As it pass’d me flying by—
From the thunder, and the storm—
And the cloud that took the form
(When the rest of Heaven was blue)
Of a demon in my view—
 
(Edgar Allan Poe)

Saturday, July 20, 2013

Confucio riconosce un bambino di sei anni quale suo maestro.


Nel periodo tra primavera e autunno, Confucio e alcuni tra i suoi allievi stavano viaggiando in carrozza e, d’un tratto, s’imbatterono in un gruppo di bambini che, giocando con piastrelle e pezzi di pietra in mezzo alla strada, bloccavano loro il passaggio. Il vecchio maestro Confucio disse allora ai bambini: “Non dovete giocare in mezzo alla strada bloccando la nostra carrozza!” Xiang Tuo, che all’epoca aveva sei anni, rispose guardando a terra: "Ah, i grandi! Ma non vede che cos’è?" Confucio allora gettò uno sguardo verso il gioco dei bambini e vide una città di piastrelle e pietre. Il bambino allora aggiunse: “da quando un castello lascia strada ad un carro? I carri devono passare attorno al castello per raggiungere l'altro lato della città”.

Confucio rimase stupito dalla risposta del bambino ed essendo un maestro famoso pose una serie di domande a Xiang Tuo:

Quale montagna non ha roccia?
Quale massa d'acqua non ha pesci che vivono in essa?
Quale mucca non partorisce?
Quale uomo non ha una moglie?
Quale donna non ha un marito?
Quale castello non ha funzionari?

 Xiang Tuo rispose prontamente a tutte le domande di Confucio:

Una montagna di sabbia non ha roccia
I pesci non vivono nell’acqua di un pozzo
Una mucca fatta di fango non partorisce
Un angelo non ha moglie
Una fata non ha marito
Un castello vuoto non ha funzionari.

Confucio rimase stupito dalla sapienza di questo bambino di sei anni e lo invitò a giocare una partita con lui. Poiché quel gioco era una sorta di gioco d’azzardo, Xiang Tuo rifiutò dicendo: “un re che gioca d'azzardo porta il suo regno alla rovina; un contadino che gioca non avrà un buon raccolto; uno studente che gioca trascura i suoi studi. Il gioco d’azzardo è un’attività futile, perché dovrei allora impararla?”

Confucio rimase profondamente colpito. Ammise di aver imparato molto da quel bambino e dichiarò apertamente Xiang Tuo quale suo maestro dicendo ai discepoli: “fra tre persone che viaggiano insieme c’è sempre un maestro. Non dovete vergognarvi di fare domande e imparare”.

Quando il racconto dell’evento si diffuse, Xiang Tuo divenne molto noto e il suo nome venne riconosciuto nella storia cinese come quello del più giovane insegnante di Confucio.

Xiang Tuo morì all’età di nove anni.

(adattamento tra le diverse versioni: Dr. Divago)

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孔子拜儿童为师
春秋时期,孔子和他的学生们周游列国,宣传他们的政治主张。一天,他们驾车去晋国。一个孩子在路当中堆石瓦片玩儿,挡住了他们的去路。 孔子说:你不该在路当中玩儿,挡住我们的车!孩子指着地上说:老人家,您看这是什么?孔子一看,是用碎石瓦片摆的一座城。孩子又说:说,应该是城给车让路还是车给城让路呢?孔子被问住了。他觉得这孩子很懂得礼貌,便问:你叫什么名字?几岁了?孩子说:我叫顶项橐,7岁!孔子对学生们说:项橐7岁懂礼,他可以做我的老师啊!