Anche il recensore più attento
e capace di tenersi lontano dagli oggetti della propria analisi cerca,
comunque, un qualcosa nei libri che
si trova ad avere sulla scrivania; quando lo trova, anche parzialmente,
costruisce un tema su quel determinato testo mantenendosi su un certo filo
ermeneutico e, dopo, ripone le pagine maltrattate sullo scaffale insieme agli
altri libri dai quali, fiero, crede di aver spolpato le ragioni della mano che
ne ha tracciato le linee d’inchiostro. Questa operazione volta a scarnificare
un testo non è poi del tutto impossibile eppure, in alcuni casi, ci sono autori
che hanno scritto le loro opere con molte mani e difficilmente esse si
lasceranno cogliere da una mano sola.
Ci sono
scritture che provano sempre ad assomigliare a se stesse perché tutto quello
che hanno da dire è nella calma e rassicurante abitudine data dalla loro
continuità; le lunghe serie dei libri gialli, rosa o di letteratura fantastica
ne sono un ben noto esempio, anche se il loro modello di “letteratura di
consumo” si amplia su orizzonti sempre più vasti fagocitando sempre più la
buona scrittura. Tende oggi ad imporsi una narrativa da best-seller da Tom
Clancy a Dan Brown e Kate Rowling in cui la ripetizione di temi già noti sembra
attirare molti lettori; gli autori di queste opere sono costretti a comporre
guardandosi sempre indietro, collegando i nuovi binari a quelli già esistenti
evitando, con cura, di tracciare nuove vie, di usare termini che il lettore
ignora o che, in qualche modo, scavano nella coscienza delle cose e del mondo. Andando oltre questa
narrativa troviamo gli scrittori per i quali il presente è già in sé una realtà
abbastanza profonda per cercarvi i molteplici significati che il tempo nasconde
dietro le sue periodizzazioni e le sue maschere. Questi provano ad immergersi
nel presente in cui vivono, invece di tuffarsi in un improbabile futuro o in un
passato già dato. Il libro Cade ancora
neve (Oros edizioni, 1996), di Sergio Caldarella, è un testo che appartiene a quest’ultimo
genere: uno scritto difficile da recensire poiché, per farlo, bisogna
addentrarsi tra le idee mascherate dietro le parole, i sensi lacustri e le
musiche sommesse nascoste tra le righe. Sembra di intravvedere nell’autore di
quest’opera le linee di un piano ambizioso, quello di condurre il lettore tra i
pensieri del libro e, d’un tratto, abbandonarlo lì, in mezzo a quel labirinto,
per vedere se avrà la capacità di riconoscersi in esso. Apparentemente Cade ancora neve sembra annunciarsi come
un testo in prosa e il sottotitolo dalla seconda di copertina (Ballate notturne) sembra confermare
quest’impressione iniziale eppure, due citazioni d’apertura cominciano ad
instillare qualche dubbio e le prime parole dell’introduzione ci danno la
certezza che non si tratti soltanto di prosa: «Crediamo di conoscere il limite
dell’orizzonte soltanto perché ci illudiamo che esso sia un confine. Quando,
però, cerchiamo di raggiungerlo, quella sottile linea nera in mezzo all’azzurro
latteo si sgretola sotto i nostri scarponi e un altro confine ci appare». Siamo
dentro una scrittura che ci coinvolge tutti e non ha nessun rispetto per i
nostri preconcetti e le nostre categorie, una scrittura che ci dice come stanno
le cose nel suo mondo che, alla fine, scopriamo essere anche il nostro.
Il più delle
volte, nel ballo strano del vivere, non arriviamo davvero a conoscere le cose finché qualcuno più edotto di noi
non è capace di spiegarcele o farcele vedere davvero e nessuno è ancora stato
capace di spiegare in profondità le alchimie di Cade ancora neve. Cominciamo proprio dal titolo: Cade ancora neve esprime un discorso che
è ancora aperto, qualcosa che, da qualche parte, continua ad accadere, quasi
un’ottimistica antitesi a quel «La neige a cessé» («Non nevica più») di Samuel
Beckett o quella neve che continua stancamente a cadere sui tetti di Dublino in
Joyce. Già Borges in uno dei suoi racconti (Utopia
di un uomo che è stanco) fa pronunciare ad una donna di un futuro senza
governi, biblioteche, stampa e nessuna memoria, le parole «Continuerà a
nevicare» e lo stesso Schubert, nel Viaggio
d’inverno, ha un tema simile a quello del viandante di Emeralopia, il primo brano in prosa di Cade ancora neve. Non per niente Caldarella parla del suo testo
come di «un’opera sparsa in mezzo ad altri libri e pensieri» (p. 71). Hemingway
sosteneva che «Cercare di scrivere qualcosa che abbia un valore permanente
comporta un impegno a tempo pieno, anche se la scrittura vera e propria occupa
solo alcune ore al giorno (...) Si tratta d’imparare a vedere, ascoltare,
pensare, percepire e non percepire, e poi scrivere» per questo, non è solo Cade ancora neve, ma ogni opera ad essere «sparsa in mezzo ad altri libri e
pensieri».
Una singolare avvertenza, proprio dalle prime pagine di Cade ancora neve, chiede o auspica dal
lettore una “lettura ad alta voce” come nelle Mille e una notte poiché in tal modo, a detta dell’autore, la
scrittura, grazie alla necessità della lentezza e delle pause, prende maggior
corpo evocando, così, più significati di quanti se ne possano, apparentemente,
leggere. La richiesta di una lettura ad alta voce riconduce ad un rapporto
d’altri tempi con la scrittura, come in quella storiella medievale secondo la
quale un monaco passeggiava triste nel chiostro poiché, a causa del suo mal di
gola, non gli era possibile leggere. In tempi recenti Ludwig Wittgenstein, uomo
parco di parole e di scritti, si dichiarava convinto del fatto che «talvolta
una proposizione può essere compresa solo leggendola col ritmo giusto» così
come Henry Meschonnic proprio in un testo sul ritmo scrive: «Dans le discours,
le discours est rythme, et le rythme est discours: non un discours parallèle,
intérieur, caché sous les mots, mais le discours même». In Cade ancora neve Sergio Caldarella trasforma queste due precedenti
osservazioni di Wittgenstein e Meschonnic in fatti sostanziali, tangibili.
Leggere Cade ancora neve con un ritmo
diverso da quello del respiro proprio di questa scrittura, significa mancarne
il senso, leggerlo al di là del suo proprio ritmo significa cancellarne il
discorso che si cela tra le righe. Ma è poi davvero possibile seguire tutti i
percorsi di Cade ancora neve? Walt
Whitman scriveva: «Se volete comprendermi andate sulle vette o sulle rive, dove
ogni inezia è una spiegazione, ogni goccia, ogni moto dell’acqua una chiave,
dove il maglio, il remo, la sega fanno da contrappunto alle mie parole». Folle
sarebbe dunque pensare di poter percorrere tutti i sentieri che un autore ha
racchiuso nelle sue parole. La scrittura di Cade
ancora neve gioca, o vive, sui propri mobili confini e sfiora,
pericolosamente, i limiti del suo stesso esprit:
è una scrittura in cui si può entrare e restarne imprigionati, oppure la si può
utilizzare come una sorta di cannocchiale per guardare mondi che si celano tra
le pieghe delle realtà o dei sogni. L’uomo del primo racconto che, dalla strada
innevata e buia, osserva una casa dalle tante luci dove la gente è in festa ed
una fanciulla bellissima sta lì, intenta a pettinarsi i capelli, è come se ci
prestasse il suo sguardo e le sue sensazioni per portarci davvero in quella
fredda notte in cui egli è eternamente in cammino.
Sergio Caldarella è nato in una città sul mare (o
un’isola dentro l’isola come egli stesso ama dire) dove si intersecano le forme
dello stile dorico dei templi greci e i fronzoli dei capitelli e dei balconi
barocchi, ma anche la città di Archimede e di Elio Vittorini. Leggendo la
prefazione alla Storia universale dell’infamia
si capisce dunque come Caldarella sia barocco nel senso che il grande Jorge
Luis Borges attribuisce al termine: «[barocco] è lo stile che consapevolmente
esaurisce (o vuole esaurire) tutte le proprie possibilità e che confina con la
propria caricatura». Non è certo un caso, dunque, che Caldarella, conscio di
ben altri roghi, abbia scritto altrove: «Scrivere fino a non poterne più, fino
a consumare la penna, gettare il pennino ed esaurire ogni altro strumento di
scrittura e, quando, esausti, si contempla una pagina piena di ghirigori e
cancellature, aprire il portello della stufa e donare la carta alle fiamme.
L’opera perfetta!».
Sarebbe bello poter scrivere come se si tirassero fuori
cibarie da una sacca. Ci sono tanti fatti strani dentro quest’insieme di
simboli che usiamo per tentare di fissare o trasmettere idee e sensazioni,
forse per questo quasi tutti gli scrittori, in un modo o in un altro, si
trovano a riflettere sulla scrittura, il mezzo che usano e dal quale sono – ad
opinione di molti – parimenti “usati”.
Leggendo le parole degli scrittori viene sempre da
chiedersi quanti mondi si nascondano in un solo essere umano. Edgar Allan Poe
affermava che «chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a chi sogna
solo di notte» e gli scrittori, questi cavalieri armati delle piume delle loro penne,
lottano a lungo per ottenere questa nuova coscienza che abita la notte, un
nuovo sentiero in un bosco fatato o una nuova fortezza da erigere su un colle
del quale hanno scritto in gioventù. Il loro è solo un mondo fantastico che
possiede tutta la potenza e la forza dei mondi che, ingenuamente, chiamiamo
reali – non a caso Adorno accenna all’impulso all’espressione artistica come al
«desiderio di eludere la schiavitù degli scopi».
In una delle lettere che abitualmente ci scambiamo ho
chiesto a Sergio Caldarella perché scrivesse poesia e lui mi ha risposto
parafrasando Rûmî: «In uno dei suoi libri, credo il Fîhi mâ fîhi, Rûmî scriveva: “Io faccio della poesia perché gli
amici che vengono da me non se ne vadano delusi e tristi (…) Altrimenti fra me
e la poesia c’è un abisso”. Con il dovuto rispetto e l’ovvio distacco tra me e
un poeta come Rûmî potrei capovolgere questa frase applicandola alla mia
insignificante persona; non sta a me giudicare se faccio della poesia ma, se
ciò avviene, è perché da me non vengono amici per ascoltare poesie e, forse, se
ne andrebbero delusi e tristi se volessi fargli ascoltare qualcosa ed è forse
per questo che tra me e la poesia continua ad esserci un abisso infinito». In
un’altra lettera aggiunge: «se ho fatto
dei versi, se davvero sono stato capace di comporli, ho sempre pensato di aver
assolto a tale compito come una sorta di locatario di un appartamento troppo
grande per le sue povere masserie. Ho lasciato – forse – che il nume delle cose potesse visitare le mie notti e mi
sono aggrappato al lembo del mantello di questo principe abbagliante facendomi
trascinare per pochi passi fino a trovare tra i miei vestiti ormai strappati
poche schegge di quella strana ispirazione. Se dovessi pensarmi come “un poeta”
proverei disagio per la presunzione delle mie parole. Penso invece a me stesso
come ad uno strano barbone che attende, seduto davanti al mare ed al cielo, un
raggio che faccia esplodere il colore delle onde. Il segreto e la gioia è
proprio nell’attesa (…) Ogni attesa è completa così come il vuoto dove nessuno
può imprimere una forma. Ci sono così
tante cose che l’uomo desidera
ingenuamente e questo desiderio ci dirige, in modi che difficilmente
comprendiamo, nuovamente verso gli oggetti del nostro desiderio, una circolarità
dalle profonde implicazioni esistenziali. Il
vero problema è che non riusciamo a desiderare ciò che è al di fuori della
scatola colorata che è il mondo (il corsivo è mio). Siamo ingabbiati in
questo rebus tra il mondo, il desiderio e la poesia e questi, alla fine, sono
forse l’unico spiraglio che abbiamo per guardare un po’ più in là da queste
nebbie».
In chiusura
alla lettera citata Sergio Caldarella aggiunge: «è meglio per me se non rileggo
le mie stesse parole» e da questo sentimento di colpa e offesa verso gli
inchiostri della propria scrittura con cui si è stesa una mappa delle
planimetrie dell’anima, si comprende quanto la scrittura sia un carico che
l’autore porta sempre con sé. Tutti noi trasportiamo il nostro significato
privato del mondo elaborato in anni di esperienze costruite sull’amore, il
dolore e la noia e non è la struttura di una molecola elicoidale che ci rende
umani, ma la misura con cui trasformiamo i bruta
facta del mondo in un’esperienza di senso. Sergio Caldarella nelle Metafisiche del Mondo, il libro che
rappresenta il corollario ed il contraltare filosofico di Cade ancora neve, scrive: «Le cose che sei capace di vedere sono
più importanti delle cose che hai visto» e, poche pagine dopo, aprendo un nuovo
paragrafo cita una frase tratta dal mio libro Walls and Mountains «Non bisogna appartenere a nulla per poter
uscire da tutto». Trovo in queste due citazioni un rapporto di saldi equilibri:
è come se Caldarella iniziasse una sorta di frase iniziatica in cui dichiara,
perentorio, che quanto vediamo non è così fondamentale in rapporto alla nostra
elaborazione mentale sul mondo eppure, poche pagine dopo, agganciando la
citazione da Walls and Mountains al
suo discorso, afferma che bisogna abbandonare persino questa visuale mentale
privilegiata rispetto alla semplice visione delle cose per uscire dall’appartenenza/dipendenza alla materia ed
entrare in una nuova avvolgente totalità ermeneutica in cui tutto parla a
tutto. Questo discorso sulla totalità in un certo senso ossessiona Caldarella ed
egli lo affronta secondo una curiosa geometria di anagrammi ed alchimie verbali
in Cade ancora neve, ma anche nelle Metafisiche del Mondo o in Memoria e dolore, testi dove le parole
parlano tra loro e il senso stesso del verbo, avendo preso commiato dalla mens auctoris, parla e racconta in una
sua lingua autonoma. Anche per questo Cade
ancora neve è un libro sull’unità poiché quest’autonomia significante
secondo cui ogni pagina rimanda ad altre pagine dello stesso volume oppure
degli innumerevoli tomi del sapere umano, pur nella sua incredibile vastità,
compie un’operazione circolare dove il testo parla, eternamente, ad altri testi
e ne compone un’appendice o, forse, una chiave o un principio. Da Cade ancora neve emerge anche la
topologia di un sapere complesso dove non esiste un solo livello di
riferimento, una sola disciplina. In questo scritto la scienza sembra fondersi
nella filosofia e quest’ultima sembra tramare dietro la poesia; per questo Cade ancora neve difficilmente potrebbe
essere compreso da un lettore abituato a frequentare solo la filosofia o
soltanto la letteratura. Tutto nella scrittura di Caldarella sembra indicare un
progetto, persino l’assenza – apparente o meno – di progetto sembra rinviare a
qualcosa di più ampio e lontano che in quel momento non ci è dato capire e le
parole in questo composto magma si coniugano ad altre parole in una vasta
circolarità che traccia il segno di una perturbante unità. Anche le apparenti
imperfezioni nel legame tra alcuni concetti sono frutto di un periodare che,
nel suo progetto complessivo, si muove tra la prosa e l’aforisma.
Gli
alchimisti nascondevano, in maniera disomogenea, le chiavi per la decifrazione
dei loro scritti sia per impedire una rapida e semplice lettura del loro
lavoro, sia per indicare la natura irregolare delle cose del mondo il cui ordine si manifesta solo quando possediamo
l’ultima chiave, quella che, nella filosofia delle cose, non raggiungeremo mai. È questo lo spirito con cui muoverci
alla ricerca dei simboli nascosti in Cade
ancora neve; a pagina cinquanta, per esempio, il titolo della breve prosa è
in norvegese: En Flyktning Krysser sitt
spor, Un fuggiasco incrocia le proprie orme, perché proprio questo titolo?
L’idea di circolarità che si cela in queste parole porta con sé, per ammissione
dello stesso Caldarella, un riferimento ad uno dei brani più noti del mondo
classico: la descrizione omerica dello scudo di Achille dove il termine greco oîmos serve per indicare, allo stesso
tempo, la fascia circolare con figure che decora lo scudo o la corazza e il
poema stesso. Seguendo questa chiarificazione, il titolo di pagina cinquanta
assume così una valenza ben diversa da quella che la pura traduzione
significante sembrerebbe indicare: se il fuggiasco incrocia le proprie ombre è
perché si sta aggirando intorno alla natura circolare della poesia o della vita
una natura che, nel suo cingere,
implica anche un’estetica ed un riferimento mitico. L’estetica è quella
dell’arte capace di cingere, di abbracciare la totalità attraverso un percorso,
il mito è quello della radice che si riscopre nel ritorno alle cose, la circolarità del poema è tale
che, percorrendola idealmente, altro non facciamo se non tornare allo specchio
da cui eravamo partiti: sembra di essere nel cuore dei misteri eleusini il cui
simbolo ultimo è, per l’appunto, lo specchio senza innocenza.
(Da: James Krote, Per una
teoria dell’anagramma: appunti su “Cade ancora neve”, un libro alchemico, in «Foreign Accent. Canadian
Review of Literatures» Vol. XXVI, Montréal, settembre-ottobre 2005, pp. 44-50.
Trad. dall’inglese di Nick Palombella)